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Competenze digitali: responsabilità individuali e forza collettiva

    Illustrazione stilizzata di una donna bianca con capelli neri raccolti in una coda, che osserva un grande acquario rotondo con due pesci rossi all'interno. La donna indossa una giacca gialla, pantaloni grigi e scarpe sportive gialle, mentre tiene uno smartphone in mano. Accanto all'acquario ci sono piante gialle stilizzate, e sullo sfondo si intravedono nuvole e un sole parzialmente coperto

    Ogni volta che attraverso la città con i mezzi pubblici ho l’impressione che ci stiamo perdendo interi pezzi di vita. Preferiamo guardarci vivere sui social media.
    Qualche giorno fa ero sul tram e sono rimasta rapita dalle manine di un bambino di circa tre anni che, seduto composto al suo posto, scrollava sullo smartphone il profilo Instagram di uno degli adulti presenti, senza nessun tipo di mediazione o filtro.

    L’algoritmo è diventato il nostro miglior babysitter.
    Poco dopo sono entrata in metro. Scendevo a passi veloci la scala mobile quando ho notato una ragazza ferma che si faceva trasportare, a testa bassa, mentre giocava a uno di quei game che ci pre-installano sul cellulare.  

    Mi è tornato in mente un passaggio del libro di Evgeny Morozov “L’ingenuità della rete”:

    “Non è chiaro che cosa ci guadagniamo nel trattare la tecnologia come un agente storico monolitico, poiché di solito nasconde, a proposito della società, della politica e del potere, molto più di quanto non sveli”. (Morozov, 2011, p. 282).

    Il leit motiv dominante, quando si discute di educazione ai media digitali, è che solo la responsabilizzazione degli individui è davvero efficace per fare tesoro dei benefici e stare alla larga dai pericoli della digitalizzazione.

    Quei genitori dovrebbero togliere lo smartphone dalle mani di quel bambino e quella ragazza dovrebbe alzare lo sguardo, forse incontrerebbe qualcuno che non vede da tempo o noterebbe che alla stazione della metro nella quale stavamo l’ascensore per disabili non funziona.

    Ma c’è altro? Davvero possiamo fare tutto da soli e da sole?

     

     

    Forse abbiamo un elefante che sta occupando tutta la stanza e ci impedisce di dare un’occhiata a cosa c’è fuori dalla finestra.

    Rimanendo piegati sulle decisioni individuali di consumo o non consumo, abbiamo finito per rinunciare a realizzare ciò che il capitalismo digitale ci ha promesso: avere relazioni affettive, moltiplicare le esperienze formative, persino essere più felici, lavorare meno e meglio, produrre messaggi significativi, influenzare le decisioni.

    Stiamo rinunciando a pretendere la dimensione politica delle competenze digitali, quella che si esprime nella possibilità di contribuire a connotare il futuro e realizzare il principio di uguaglianza sostanziale affermato nell’articolo 3 della Costituzione italiana: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

    Ogni volta che al ristorante vedo un bambino abbandonato a uno smartphone, non colpevolizzo nessuno, invece rifletto su che tipo di formazione digitale abbiano avuto i suoi genitori.

    In “Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo” il sociologo americano Henry Jenkins ha evidenziato come siamo influenzati dal capitale formativo di partenza:

    “I giovani della classe media hanno più probabilità di contare su risorse e assistenza dei loro pari e dei familiari all’interno dell’ambiente domestico e, quindi, a scuola sembrano più autonomi rispetto ai bambini delle classi più povere, che spesso devono fare maggiore affidamento su insegnanti e coetanei per compensare la mancanza di esperienza in casa. I giovani della classe media, dunque, appaiono superiori «per natura» rispetto all’uso della tecnologia, rafforzando ulteriormente la fiducia nella propria conoscenza” (Jenkins, 2010, p.80)

    Esplorando il concetto di “partecipazione civica nell’era digitale“, Jenkins evidenzia come le forme attuali di partecipazione politica – il blogging, il citizen journalism e l’attivismo online – siano modellate dall’alfabetizzazione dei media digitali. La sua prospettiva poggia sulla convinzione che le competenze digitali si esprimano compiutamente in intelligenze plurime e “dovrebbero essere viste come abilità sociali, modalità di interazione all’interno di una comunità più ampia, e non semplicemente come abilità individualizzate da utilizzare per l’espressione personale”. (p.94).

    In un articolo di oltre venti anni fa, Peter Lyman (1940-2007), docente alla School of Information dell’Università della California, Berkeley, si chiedeva se “il potenziale di Internet per l’aumento del capitale sociale e dell’impegno civico potrebbe risiedere meno nella tecnologia stessa e più in luoghi pubblici che ne consentono l’uso tra le comunità svantaggiate”  (Lyman, 2004, p.6).

    Dovremmo davvero concentrarci solo sugli errori che commettiamo con e sui media come individui? Non rischiamo così di perdere di vista i benefici che ci erano stati promessi in termini di collettività?

    La capacità di analisi critica dei media, e degli aspetti culturali, sociali e economici sottesi, non necessariamente deve esaurirsi in strategie di marketing politico che fanno dell’educazione ai media un’educazione individualista, impegnata ad imparare a consumare e proteggersi dalle piattaforme e dagli altri attori economici presenti nella rete.

    Dovremmo forse affermare una digital media literacy come risorsa di comunità.

    Le nostre istituzioni europee hanno affermato principi ben diversi, almeno sulla carta, sostenendo il legame tra partecipazione civica e alfabetizzazione digitale fin dalla Raccomandazione europea che ha introdotto la competenza digitale tra le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente definita come “l’interesse per le tecnologie digitali e il loro utilizzo con dimestichezza e spirito critico e responsabile per apprendere, lavorare e partecipare alla società” (Consiglio europeo, 2018).
    Il Piano d’azione per l’istruzione digitale 2021-2027 dell’Unione europea (Commissione europea, 2020) ha continuato in quella direzione, affidando all’istruzione digitale un ruolo centrale nel rafforzamento dell’uguaglianza e dell’inclusività.  

    Nel Regno Unito, la voce dello studioso David Buckingham è stata la più decisa nell’affermare il ruolo cruciale che l’alfabetizzazione dei media digitali gioca nel consentire ai cittadini di partecipare in modo efficace e critico al processo politico, soprattutto in un’epoca in cui le informazioni sono ampiamente diffuse attraverso le piattaforme digitali, un ambiente nel quale si dovrebbe mantenere il controllo sulle proprie convinzioni e sui processi che ne accompagnano la formazione e la revisione.
    Anche negli Stati Uniti, Renee Hobbs, fondatrice del Media Education Lab e docente di Communication Studies alla Harrington School of Communication and Media della University of Rhode Island, ha avuto un impatto significativo nella concettualizzazione di un’alfabetizzazione dei media digitali che si esprima come partecipazione democratica e coinvolgimento civico.
    Partecipare in modo informato, responsabile e significativo alla vita civica attraverso il digitale si esplica nell’impegno nel dibattito pubblico, nella politica e nell’attivismo.

    La sua “digital e media literacy” ha una dimensione collettiva che significa “Intraprendere azioni sociali lavorando individualmente e collaborativamente per condividere conoscenze e risolvere problemi nella famiglia, sul posto di lavoro e nella comunità, e partecipando come membro di una comunità” (Hobbs, R., (2010). Digital and Media Literacy: A Plan of Action. Washington: The Aspen Institute. p. VII-VIII).

     La capacità di informazione e di ricerca critica deve essere accompagnata dal coinvolgimento attivo e dalla comprensione delle influenze che la tecnologia digitale esercita sulla società e sulle relazioni umane, incluse le implicazioni etiche associate al suo utilizzo, il tema della responsabilità e dell’importanza di creare ambienti online inclusivi che rispettino e valorizzino la diversità di prospettive, identità e esperienze.

    “Quando le persone hanno competenze di digital e media literacy, comprendono i propri obiettivi personali, quelli aziendali e politici e sono in grado di parlare a nome delle voci mancanti e delle prospettive omesse nelle nostre comunità. 

    Identificando e cercando di risolvere i problemi, le persone utilizzano le loro potenti voci e i loro diritti sanciti dalla legge per migliorare il mondo che li circonda. (Hobbs, 2010, p.17).

    Hobbs aggiunge anche che perché “le persone intraprendano azioni sociali e davvero si impegnino in attività civiche reali che migliorano le loro comunità, hanno bisogno di sentire quell’empowerment che deriva dal lavorare in modo collaborativo per risolvere i problemi”. (Ibidem, p. VIII).

    Se cambiamo la nostra prospettiva da responsabilità individuale in empowerment tecnologico di comunità, la formazione delle identità digitali dovrà necessariamente includere la comprensione di aspetti psicologici, sociali e culturali, oltre che della cultura della simulazione.
    Più che continuare a prevenire e difendere, forse la soluzione è ribaltare il punto di vista da passivo a attivo, da difesa a partecipazione, affermando la libertà di rivendicare cambiamenti e diritti, non solo individualmente ma anche collettivamente. 

    Torna viva la lezione del pedagogista brasiliano Paulo Freire sull’educazione come forza liberatrice:

    “L’inserimento dell’individuo, come soggetto, nel processo storico, evita i fanatismi e inserisce l’uomo nella ricerca della sua affermazione” (Freire, La pedagogia degli oppressi, 2002, p. 22). Prendendo coscienza della situazione, attraverso la coscientizzazione, le persone avviano una ricerca dentro di sé immersi nel proprio contesto. “In questo senso ogni ricerca tematica coscientizzatrice diviene pedagogica, e ogni educazione autentica si fa indagine del pensiero”. (Ibidem, p. 102-103).

    Nel suo pioneristico e visionario Manifesto Cyborg, Donna J. Haraway scrive:

    Non è possibile avere “politiche ed epistemologie “dell’identità” che siano innocenti e servano come strategie per vedere, e vedere bene, da posizioni soggiogate. Non si può “essere” una cellula o una molecola – o donna persona colonizzata operaio e così via – se si vuole vedere, e vedere in maniera critica, da queste posizioni. “Essere” è molto più problematico e contingente. Inoltre, non possiamo riposizionarci senza essere responsabili del movimento che si fa. La visione è sempre questione del potere di vedere e forse della violenza implicita nelle nostre pratiche di visualizzazione” (Haraway, 2018, pp. 114-116).

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